Il manager culturale ragiona sul suo recente saggio dedicato al futuro delle città e suggerisce che Torino Social Impact apra i confini per contaminare la regione tre le grandi sfide che avremo davanti come cittadini: «imparare a cooperare, riequilibrare la relazione tra natura e cultura, governare la sfida tra reale e digitale»
Tecnicamente viene definito un “urban practitioner”, cioè un professionista che si occupa di sviluppo urbano. E Paolo Verri, torinese, classe 1966, sta dedicando una vita – e sempre con entusiasmo – a questa attività. È stato direttore del Salone internazionale del libro di Torino agli albori (dal 1993 al 1997), ha diretto il Piano strategico della città della Mole fino al 2006, poi gli eventi per i 150 anni dall’unità d’Italia, quindi le attività del Padiglione Italia a Expo 2015 di Milano per poi occuparsi di Matera 2019 Capitale della cultura.
Sta mettendo la sua esperienza a disposizione dei giovani (insegna allo Iulm e allo Ied) e ora – impegnato su più fronti – ha pubblicato un volume in cui ragiona sugli anni a venire. Dedicato a Fiorenzo Alfieri – indimenticato amministratore pubblico e assessore alla Cultura di Torino – perché «mi ha cambiato la testa», s’intitola «Il paradosso urbano. Nove città in cerca di futuro» (Egea, Milano, 2022, pagine 202, euro 22,50). Verri parla non soltanto di Torino, ma anche di Barcellona, Pittsburgh, Lione, Milano, Istanbul, Wroklaw, Matera e Tokyo. Mette a confronto Italia, Europa e altri continenti.
Ci sono un desiderio e una tensione in queste pagine: rimettere le città «nelle mani dei cittadini». Il volume è come un manuale di educazione al senso civico per abitanti non passivi del villaggio globale. Una guida, potremmo dire, alla relazione con il territorio, sapendo che la realtà evolve – ahinoi – con una accelerazione sempre più marcata. Ma anche, e proprio per questo, è una guida all’uso del tempo, che non va disperso o rubato, un po’ come in Momo di Michael Ende. Ecco il paradosso della città: è come la tartaruga di Zenone, organismo vivente di straordinaria bellezza che non sarà mai raggiunta da Achille perché sempre un passo più avanti, in movimento, in evoluzione.
Dottor Verri, com’è il polso delle città che ha esaminato?
«Le aree urbane oggi paiono assomigliare in buona misura allo scenario distopico in cui si muove il protagonista di Ready Player One, il film di Steven Spielberg uscito nel 2018, tratto dal libro Player One di Ernest Klein. Nelle città quasi distrutte del 2045, anno in cui il film è ambientato, la vita si districa a fatica tra grandi difficoltà economiche e relazionali, ma di tutto ciò i cittadini non hanno percezione, assorbiti come sono quasi perennemente nell’universo parallelo dei videogiochi. Per progettare nuove città davvero funzionanti e organizzate (ovvero in cui il livello di sicurezza sia soddisfacente per gran parte degli abitanti, e pure a costo della loro libertà), dobbiamo davvero rifugiarci nella realtà virtuale? Sarà questa la prossima frontiera del paradosso urbano? Abbandonare lo spazio reale per il cosiddetto metaverso?».
I dilemmi offuscano la capacità di visione?
«C’è una grande complessità ed è difficile orizzontarsi, lo so bene. Ma non bisogna sedersi. Io penso, e lo scrivo, che abbiamo perso alcune grandi occasioni perché abbiamo chiesto troppo alla politica e troppo poco alle politiche. Bisogna mettersi in moto e farsi contaminare intelligentemente da ciò che accade altrove. Torino, per esempio, non avrebbe intrapreso certe direzioni se non avesse assorbito spunti preziosi da Lione e Barcellona. Vale per Pittsburg e per le altre città che ho preso in esame. Occorre prendere i semi giusti e farli attecchire nel modo giusto. Ogni storia parte da una crisi e le soluzioni sono nate anche con la creatività».
Torino ha perso occasioni?
«In Felicità raggiunta di Eugenio Montale, il primo verso recita “Felicità raggiunta, si cammina”. È bellissima, perché ci dice che tutto è in movimento, sempre. Tra il 1998 e il 2008 Torino ha compiuto un balzo clamoroso. Poi, fuori dagli scogli, ha dovuto di nuovo fronteggiare la terribile crisi mondiale arrivata come onda lunga dagli Usa. In quel periodo, lo dico con franchezza, la seconda giunta Chiamparino si è messa troppo nelle mani di Marchionne. Un esempio? Potevamo già studiare e sperimentare l’idrogeno, ma lo stiamo facendo soltanto ora e magari è troppo tardi. Non c’è soltanto la manifattura, insomma, per quanto importante. Occorre lavorare sul pensiero e poi sull’azione, condividendo conoscenze e buone pratiche».
Non s’impara mai?
«Ci sono tre grandi sfide che avremo davanti come cittadini. E l’esperienza della pandemia ce lo ha fatto capire con grande evidenza. Le città dovranno imparare a cooperare, a riequilibrare la relazione tra natura e cultura, a governare la sfida tra reale e digitale».
Come vede il ruolo di Torino Social Impact?
«Credo che adesso potrebbe essere strategico un “patto regionalizzante” per diffondere questa cultura, contaminando con le sue competenze un mondo relativamente più ricco, che entri anche in un tessuto economico differente. Molto, su Torino, dipende dalle fondazioni ex bancarie e da grandi operatori. Dobbiamo osare, uscire dalla cinta daziaria e innervare gli altri capoluoghi e non solo: Cuneo, Asti, Alba, per dire. Intercettando, aggiungo, i prossimi bandi sulla creatività e gli Interreg. C’è una cultura del social impact da diffondere e non può essere autoreferenziale».
Ci sono vie privilegiate?
«A me piace molto il Webfare proposto dal filosofo Maurizio Ferraris, con un approccio diverso alle tecnologie per superare le diseguaglianze. Il nostro sistema universitario torinese è impegnato su questa strada. Si deve scegliere l’ibridazione tra discipline e saperi, così come si punta all’ibridazione tra profit e non profit. Cittadini più protagonisti con amministratori che diventano federatori di esperienze, non soltanto buoni gestori in angusti confini».
Città, dunque, ma anche periferie e piccoli centri?
«Assolutamente sì. Serve un passaggio dalla diffidenza alla confidenza tra città e territori. Sui luoghi non urbani».
C’è qualche spunto che l’appassiona e che potrebbe vedere impegnati insieme cittadini, imprenditori e amministratori, specie se sensibili alla impact economy?
«Il recupero di Mirafiori, a lungo termine. Perché non convincere le Pmi dell’hinterland, per esempio, a spostarsi lì, liberando spazi da rigenerare? Potrebbero venire dati degli incentivi, così come si sta pensando per le molte aree dismesse. Si favorirebbero coabitazione e collaborazione in nome della sostenibilità. Così come la Italvolt si è insediata a Scarmagno. Chi ragiona in termini di economia di impatto potrebbe offrire un contributo straordinario in questa direzione».
Le città e il paradosso della tartaruga
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