Il professore, delegato all’attuazione del Piano strategico dell’ateneo torinese, è stato alla guida dell’Incubatore I3P. Ora è presidente della Compagnia valdostana delle acque, gruppo impegnato sul fronte delle energie rinnovabili. «I giovani – dice – vanno aiutati a saper gestire l’innovazione. Profit, No Profit e accademia uniscano le forze, compensino le debolezze e sappiano rendere attrattiva Torino pensando davvero al suo futuro».

Marco Cantamessa, classe 1966, è professore ordinario al Politecnico di Torino, dove insegna Innovation management e product development. Inoltre, è delegato del rettore Guido Saracco alle Valutazioni Strategiche e all’attuazione del Piano Strategico. Dal 2017 è presidente della Compagnia valdostana delle acque (Cva), una delle aziende italiane meglio attrezzate nell’ambito delle energie rinnovabili.

Professor Cantamessa, lei è stato uno dei più giovani docenti del Politecnico di Torino, ha poi seguito con passione i progetti dell’incubatore I3P. E adesso si occupa del Piano strategico dell’ateneo. È vero che i giovani che si preparano a essere ingegneri sono più attenti alla sostenibilità e alla economia di impatto che tempo addietro? Se sì, perché?
«Il profilo dei giovani che frequentano l’ateneo è sicuramente cambiato nel tempo. Da un lato, c’è una maggiore sensibilità alle problematiche che investono la nostra contemporaneità, e un certo desiderio di mettersi in gioco per risolverle. Allo stesso tempo, però, molti studenti sentono l’incertezza del momento, ricevono dagli adulti molti messaggi pessimistici, e temono di esserne travolti. Questo li porta a rifugiarsi in un atteggiamento passivo, che si risolve in un “cerco il posto di lavoro” ».

Dove individua il vostro compito?
«Nell’evitare questa “ritirata”, facendo capire loro che chi si laurea al Politecnico ha, in generale, credenziali ottime rispetto all’obiettivo di trovare un posto di lavoro. E che, pertanto, possono e devono ambire a qualcosa di più: non solo lavorare, ma contribuire al cambiamento; non solo trovare un posto di lavoro, ma crearne; non solo produrre innovazione, ma anche gestirla attivamente. In altre parole, si tratta di far maturare in essi il senso di “agency” (o ”agentività”)».

Che cosa state facendo al Poli, oltre che assicurare una preparazione scientifica di qualità nei vari ambiti, affinché ci sia una attenzione al contesto della transizione ecologica?
«Le attività sono molteplici. E dal 2015 vengono anche coordinate da un’unità dedicata, il Green Team di Ateneo. In primo luogo, l’attività di ricerca, di base come applicata, viene fortemente orientata al tema della sostenibilità sia dagli orientamenti culturali dei singoli ricercatori sia dalla priorità che a questo tema viene dato dai programmi di finanziamento, in particolare UE. Chiaramente, la transizione ecologica è un cambiamento epocale e trasversale, che investe tutti i Dipartimenti del Politecnico. In secondo luogo, l’attività didattica, che vede la nascita di nuovi corsi di studio, orientamenti, e singoli insegnamenti, inclusi gli “insegnamenti grandi sfide”, gestiti in modo interdisciplinare, e che aiutano gli studenti dei primi anni a comprendere la dimensione tecnologica, economica e sociale di questo cambiamento. Infine, il campus stesso si sta orientando sempre di più a sostenere questa transizione, con un’attenzione rinnovata ai consumi energetici, all’abbattimento degli sprechi, e così via».

Lei si occupa da diversi anni di energie rinnovabili perché è sulla tolda di comando di Cva. Chi non è un addetto ai lavori che cosa può concretamente fare, anche nel piccolo, perché si possa invertire la rotta del climate change?
«Il tema del climate change definisce per eccellenza un contesto, se mi passate il gergo anglosassone, di tipo VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous). Siamo davanti a un passaggio epocale, nel quale contano azioni individuali, investimenti industriali, e politiche pubbliche, con la difficoltà addizionale che tutto ciò dovrebbe essere attuato a livello globale. In particolare, io vedo la difficoltà a dover investire in un contesto nel quale molte soluzioni tecniche che potranno aiutarci in questo passaggio non sono nemmeno mature, e dobbiamo pertanto stare attenti al rischio che gli investimenti di oggi non vengano attuati in modo affrettato, portandoci di fatto a rallentare lo sviluppo di tecnologie prospetticamente migliori di quelle attuali».

Se queste scelte sono difficili per i policy-maker e per le imprese, che cosa può fare ognuno di noi?
«Sicuramente può preoccuparsi di questo tema nelle scelte individuali e familiari, soprattutto sul tema dello spreco: spreco di energia, di cibo, di prodotti lasciati inutilizzati e buttati via, e che costituisce una parte importante dei nostri consumi e dell’impatto che lasciamo sull’ambiente. Le azioni possibili sono tante, da quelle piccole (dall’attenzione agli acquisti alimentari all’uso dell’auto, alla scelta di operatori energetici “green”) a quelle più impegnative. Come quella di investire nell’efficientamento energetico delle nostre case. Devo dire che gli importanti rincari energetici che oggi stiamo vivendo portano con sé un effetto positivo, che è quello di “allineare gli incentivi”, obbligandoci a una rinnovata attenzione su temi che, sinora, consideravamo solo per motivi ideali, e non per interesse. Ma, quando la bolletta elettrica della propria famiglia o il pieno dell’auto raggiungono le tre cifre, il tema diventa ovviamente più scottante».

Il sistema Torino Social Impact ormai supera i 180 partner. A suo avviso, come potrebbe contribuire maggiormente con Università e Politecnico per rendere concreta e non autoreferenziale l’attenzione alle ricadute sociali dell’economia?
«Penso si debba costruire un rapporto sempre più stretto, ma concreto e fattuale. Occorre evitare di agire a livello di teoria (“facciamo un convegno sul tema”) e anche sulla mera progettualità (“mettiamo gli studenti a predisporre un piano di riqualificazione”), per entrare nell’attuazione concreta, mettendo a fattor comune le rispettive forze e compensando le debolezze. Io vedo il lato del Politecnico, e ritengo che abbiamo parecchio da dare, sia in termini di “capacità progettuale”, sia di tecnologie utili a chi opera nel non profit a essere più efficiente ed efficace. Inoltre, penso che diffondere una maggiore competenza tecnologica nella popolazione sia un “win win” per tutti, perché rende la società più capace di affrontare proattivamente i cambiamenti in atto, anziché opporvisi; aumenta l’employability delle persone (e qui penso soprattutto al grandissimo numero di NEET della nostra area metropolitana); rende il territorio più attrattivo per gli investitori».

Quali esperienze internazionali potrebbero essere un riferimento per Torino?
«Ci sono molte realtà interessanti dalle quali potremmo imparare, dalle iniziative di Imperial College a Londra, a favore del quartiere di White City che ospita il loro nuovo campus, al supporto dato dall’università Luiss a Roma per portare in Italia la coding academy Ecole42. Ma tutte si caratterizzano per l’estrema concretezza e l’elevato livello di ambizione: non è un gioco».

Come pensa che possa avvenire un dialogo proficuo, utile al territorio, tra imprese for profit e no profit?
«Torino è fiorita negli anni in cui lo sviluppo industriale post-unitario si sposava con l’azione dei santi sociali: si può ripartire da lì, ma ricordandosi che occorre privilegiare l’attrazione e l’azione di attori nuovi e innovativi come, all’epoca, erano Isacco e Napoleone Leumann e Leonardo Murialdo, per fare due esempi. Se si continua a operare a porte chiuse, sempre tra gli stessi attori, è difficile che possa nascere qualcosa di nuovo ed efficace».

Che cosa manca a Torino, visto dal suo osservatorio, perché le giovani generazioni possano dare un contributo forte allo sviluppo e al rilancio della città?
«La cosa più ovvia: che, dopo aver studiato a Torino, molti di essi arrivando da altre regioni italiane o dall’estero, qui rimangano a lavorare e mettere su famiglia. Se, finiti gli studi, vanno via, chi nel nuovo triangolo industriale Milano-Emilia-Romagna-Veneto, e chi all’estero, c’è ben poco da fare. Ogni anno perdiamo in questo modo migliaia di giovani qualificati, che qui potrebbero invece lavorare, produrre ricchezza, e interagire con la società. Se non facciamo qualcosa rapidamente, rischiamo di diventare una città ripartita in “caste” isolate tra loro, con una classe media schiacciata tra anziani arroccati nelle loro case, giovani studenti universitari che vivono la loro vita, ma pronti ad andarsene, e una crescente classe di “esclusi”. In altre parole: una polveriera».

Alternative? Contromisure?
«Ritengo che la priorità più urgente sia quella di darsi da fare per attrarre su questo territorio imprese e imprenditori, italiane ed estere, che offrano posti di lavoro qualificati e competitivi. Non è nulla di nuovo, perché è esattamente ciò che fece il sindaco Luserna di Rorà 160 anni fa, quando Torino perse lo status di capitale. Lo possiamo fare, forti delle competenze che qui abbiamo, forti di quelle nuove che sviluppiamo negli Atenei, e forti di un rapporto tra costi e qualità della vita estremamente favorevole».