di Pier Paolo Luciano

Parla Christian Greco, visionario direttore dell’Egizio di Torino: le iniziative per l’inclusione, con detenuti, famiglie povere, bambini malati e l’idea di trasformare il Palazzo del lavoro in un inedito laboratorio

La prima tappa è stata il «Bilancio sociale 2017». A due anni dalla “rivoluzione” del 2015 la presidente Evelina Christillin e il direttore Christian Greco volevano capire l’impatto economico dell’ampliamento degli spazi del museo e, soprattutto, dell’aver puntato sulla ricerca scientifica come motore dell’Egizio. Ne è uscito fuori un quadro lusinghiero, confermato anche da un’altra pubblicazione “La creazione del valore 2018”, presentata come primo tentativo di definire il modello di gestione del Museo. Poi, con il “Report integrato 2020”, si è andati oltre, unendo la rendicontazione qualitativa e quantitativa delle attività. Ora un altro passo avanti: l’affidamento alla Fondazione Santagata di valutare anche l’impatto sociale e culturale del progetto “Museo Egizio A/R”. Ne parliamo con Christian Greco che sin dal suo arrivo a Torino dieci anni fa si è preoccupato di accrescere il valore non solo economico del museo. Che, per inciso, ha prodotto numeri notevoli: oltre un milione di visitatori nel 2023 (erano la metà die ci anni prima), i dipendenti passati da 13 a 75 (228 se si contano gli esterni) e un giro d’affari che sfiora i 190 milioni. Uno sforzo riconosciuto anche con l’assegnazione a Greco del premio “torinese dell’anno 2024” da parte della Camera di commercio.

Direttore, che cosa c’è all’origine del ragionamento?

«Philippe De Montebello, storico direttore del Metropolitan museum of Art, sosteneva che nessuna istituzione del ventunesimo secolo può esistere per diritto divino e può pensare di sussistere senza un saldo rapporto con il tessuto sociale  in cui è inserita. Ogni museo deve conquistare il proprio diritto all’esistenza. Come una scuola, un’università, anche il museo non ha senso se non fa parte della polis, mirando ad acquisire un ruolo politico nel senso etimologico del termine. Il Museo Egizio è inserito in una comunità che non è formata solo da egittologi, egittofili e intellettuali, ma da tutti coloro che varcano la soglia d’entrata con le motivazioni più varie».

L’obiettivo di questo nuovo studio sull’impatto qual è?

«C’è interesse a valutare le prestazioni del Museo sia in termini strettamente economici sia con uno sguardo più ampio. L’obiettivo principale è incrementare il valore e la qualità delle programmazioni e per riuscirci è essenziale sviluppare una strategia di medio-lungo termine e un processo di valutazione costante, per misurare l’impatto generato. Questo comporta da un lato adottare una nuova scala valoriale per progettare pratiche culturali più sostenibili e diversificate, dall’altro misurare di continuo, per verificare l’andamento degli obiettivi stabiliti sostenendo l’accountability dell’istituzione e per accrescere la trasparenza nei confronti della comunità».

Nei suoi dieci anni al timone di via Accademia delle Scienze ha fatto dell’Egizio l’apripista nel campo dell’inclusività sociale, non solo a Torino. Con quale obiettivo?

«Coinvolgere tra i nuovi pubblici dell’Egizio persone provenienti da altri paesi è uno dei propositi che ci siamo dati e che condividiamo con altri 15 musei in Europa riuniti nel network Multaka international. Il primo evento è stato “Io sono benvenuto”, organizzato nel 2016 in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. E da allora lo riproponiamo ogni anno. E poi workshop di formazione come “Musei e migranti. Gli strumenti per l’incontro”, che ha coinvolto operatori museali, culturali e sociali. C’è di più. Il Museo ha creato percorsi di formazione che hanno coinvolto un gruppo di donne nordafricane, ora mediatrici culturali in lingua araba in occasione di eventi speciali, e per giovani immigrati che hanno appreso l’Italiano attraverso l’arte egizia».

L’ultima iniziativa che si può inquadrare come innovazione sociale è “L’Arte per tutti” che ha spalancato le porte del museo a famiglie povere e senza tetto. Qual è l’obiettivo?

«Creare visite guidate e laboratori pensati ad hoc, per piccoli gruppi di famiglie in difficoltà abitativa e persone senza fissa dimora. Vogliamo far sentire queste persone accolte e coinvolte nella vita culturale della città, collegando la visita al Museo a una serie di attività mirate all’inclusione sociale attraverso la cultura e l’arte. Con il Comune di Torino, nostro partner nell’iniziativa, crediamo che un pomeriggio dedicato alla cultura e alla condivisione sia un buon modo per garantire a tutti il diritto alla cultura».

Altre iniziative sociali hanno portato l’Egizio tra i piccoli pazienti del Regina Margherita o i detenuti del carcere Lorusso Cotugno. Con quali risultati?

«Ben lontani dall’essere una torre d’avorio, cerchiamo di fare rete con altre istituzioni cittadine, anche quelle in apparenza più lontane. Con la direzione del carcere Lorusso Cotugno abbiamo promosso ‘Liberi di imparare’ un’iniziativa di grandissimo valore che ha visto le sezioni scolastiche carcerarie impegnate a riprodurre, con grande qualità, copie di reperti della collezione del Museo. Con la Fondazione Forma da più di dieci anni organizziamo laboratori nell’ospedale pediatrico di Torino destinati a ragazzi tra i 5 e i 17 anni. Iniziative che abbiamo riunito nel progetto “Il Museo fuori dal museo” che punta a rendere accessibili i contenuti delle collezioni dell’Egizio anche a coloro che non possono visitare il Museo».

I bambini sono al centro anche del progetto che averte realizzato con Cassa Depositi e Prestiti e che ora sarà valutato nell’impatto che ha avuto: “Museo Egizio Andata e ritorno”. Di che si tratta?

«È un percorso educativo in tre tappe rivolto alle scuole primarie dell’area metropolitana che è cominciato nell’anno scolastico 2022-23 ed è andato avanti per un pezzo dell’anno in corso. Un progetto che ha coinvolto oltre venti istituti e quasi 130 classi di paesi fuori da Torino. Con un obiettivo: offrire un approfondimento sull’antica civiltà nilotica che non sia sporadico, occasionale. Al contrario, favorisca il piacere della scoperta per tappe attraverso due collegamenti live con un egittologo inframezzati da una visita alla collezione. E in più un concorso di idee per dar vita a una guida al museo fatta dai bambini per i bambini».

La sfida finale?

«Rendere libero l’accesso al museo. Accade già in alcune importanti istituzioni all’estero. Vorremmo fosse possibile all’Egizio dal 2028. Che sarebbe un ulteriore passo avanti nell’inclusività che è una delle nostre parole chiave. Un museo aperto a tutti si impegna a tenere presenti le differenze sociali, culturali, cognitive, sensoriali per poter avvicinare chi fatica a trovare uno spazio nella vita pubblica della comunità. Tutto questo senza dimenticare che gli interventi che hanno un impatto sociale riguardano giocoforza numeri contenuti di persone perché è necessario creare relazione».

 

La cultura può essere un driver dell’innovazione sociale, contribuire all’ecosistema torinese dell’impact economy e alle contaminazioni possibili tra cultura e imprese?

«Torino ha un sistema culturale multiforme e diffuso, molto legato ai cardini scientifici. C’è un filo rosso che unisce musei, atenei e fondazioni bancarie che rappresenta un unicum e andrebbe sfruttato al meglio per dare davvero forma a quel progetto di trasformazione che avevo colto nel 2014 quando sono approdato a Torino dopo 17 anni trascorsi fuori dall’Italia. Magari partendo da quel capolavoro dell’architettura che è Palazzo del Lavoro per aprirvi un inedito viaggio dalla preistoria al contemporaneo, con le collezioni sfruttate in modo inedito. Non un museo in più, ma un laboratorio con didattica che sarebbe di esempio in Europa».