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Intervista al vicepresidente dell''azienda fondata a Torino nel 1895 e marchio di punta del miglior made in Italy.

Giuseppe Lavazza, classe 1965, è vicepresidente della Lavazza. Dopo la laurea in Economia, è entrato nell’azienda di famiglia nel 1991 rivestendo ruoli di crescente responsabilità, a partire dal marketing e dalla comunicazione. Da giugno di quest’anno è Cavaliere del lavoro. La Lavazza, fondata nel 1895, conta oggi oltre 4mila tra dipendenti e collaboratori ed è presente in 90 Paesi del mondo, marchio di punta del miglior made in Italy.

Dottor Lavazza, a Torino c’è molto fermento sull’impact economy. Unicredit porterà alle Ogr la sede italiana del Social Impact Banking, al Politecnico s’inaugurerà il 15 gennaio il Cottino Social Impact Campus. Che ne pensa?
Tutto il bene possibile. Ritengo però che si debbano trasformare queste opportunità in una concreta rivoluzione culturale. Nella finanza, nell’economia, nella politica. Va cambiata la mentalità, bisogna preparare le persone: i giovani, ma non solo. Deve scattare in tutti il senso di corresponsabilità, nei cittadini, come nei decisori pubblici e privati. In un mondo popolato ormai spesso di fake news e di sola emotività, c’è bisogno di chiarezza, di visione e di buone pratiche. L’assistenzialismo, di qualsiasi natura, non porta da nessuna parte: è ingiusto, è propaganda politica; è populismo, giallo, rosso, verde, non importa. Di sicuro non si tratta di impegno per il bene comune, inclusivo e in grado di generare sviluppo.

Che si può fare, secondo lei, per un “impatto sociale” consapevole?
Penso che sia importante innescare un circuito virtuoso tra imprese, pubblica amministrazione e società civile. Mettendo da parte la cultura dello spreco. Spesso e volentieri s’insinua l’ipocrisia di giustificare lo spreco di risorse collettive con un presunto intento sociale, ma non è così. In Italia, purtroppo, il “voto di scambio” è una prassi diffusa. Ma se privilegi e benefici vanno a chi non ne ha realmente bisogno, c’è qualcosa che non funziona nel sistema. L’innovazione sociale è tutt’altro. E sono le persone più fragili che vanno aiutate, rendendole autonome, capaci di riscattarsi. Lo Stato è la famiglia di tutti, non è una diligenza da assaltare.

Le imprese possono dire la loro?
Debbono. Nel senso che le realtà sia for profit sia non profit – se sostenibili – hanno molto da trasmettere come esperienza positiva nella gestione delle risorse, negli investimenti da compiere, nello stile con cui gestire le relazioni con dipendenti, collaboratori e fornitori. Hanno una presenza capillare e possono essere decisive nelle partnership tra pubblico e privato o nella costruzione di un nuovo sistema di welfare.

La sua azienda, di capitalismo familiare, è orientata all’impatto?
Abbiamo compiuto intenzionalmente alcune scelte. Intanto, al centro mettiamo le persone, dai produttori di caffè ai dipendenti, dai collaboratori ai consumatori. Dal 2017 siamo entrati nel Global Compact, impegnandoci a perseguire i 17 obiettivi dei Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite. Seguiamo con la nostra Fondazione progetti per favorire lo sviluppo imprenditoriale e le capacità dei nostri produttori di caffè.

La Nuvola, il vostro quartier generale, è nata con la stessa logica?
All’inizio, sono sincero, avevamo una esigenza comune a molte imprese: trovare una sede unica, spaziosa, dove riunire vari uffici e funzioni aziendali che rischiavano di disperdersi qua e là in posti diversi. Con il tempo, individuata l’area dismessa dove adesso c’è la Nuvola, è maturata in noi la consapevolezza di edificare qualcosa di utile per contribuire alla rigenerazione del territorio e della città.

Torino può venire fuori dal grigiore in cui molti la relegano?
Spesso, certi meccanismi perdenti sono il frutto di autolesionismo. Conviene puntare a poche cose, ma ben fatte. Abbiamo molte eccellenze. Ma torno a insistere sul tema della education. Gli studenti del Politecnico, per esempio, sono il triplo della Bocconi. Ma a Milano sono più concreti, non si disperdono in mille rivoli come noi… A Torino debbono poter crescere cittadelle dei saperi e moltiplicarsi le opportunità formative: bisogna investire sui giovani e fare in modo che restino qui e non se ne vadano. Mi pare una sfida decisiva per costruire futuro.