A colloquio con Don Luca Peyron, catalizzatore della assegnazione dell’istituto I3A al territorio. «Con l’IA ci troviamo di fronte a uno spartiacque culturale, etico e tecnologico: ma nell’ecosistema subalpino possiamo sperimentare meglio che altrove, dall’industria al terzo settore, con un impatto indubbio e positivo per tutto il paese»

Intelligenza artificiale? Etica? Utilizzo della tecnologia for welfare? «C’è bisogno di creare attenzione intorno a questi temi, di ragionare e di sperimentare. Perché riguardano tutti noi, non soltanto i credenti». Parola di Luca Peyron, classe 1973, cappellano degli atenei torinesi, tra i fondatori del servizio dell’Apostolato digitale, prima esperienza del genere in Italia e sicuramente in Europa. Il “don” è una vocazione adulta: laurea in legge e cinque anni di attività professionale nella tutela della proprietà industriale prima di diventare sacerdote nel 2007. Oggi insegna teologia della trasformazione digitale all’Università Cattolica.

In questi mesi è stato molto presente sulla scena, perché è riuscito a coinvolgere il sistema subalpino nella candidatura di Torino a sede nazionale dell’Istituto per l’intelligenza artificiale I3A. Traguardo raggiunto al fotofinish nel settembre 2020, con l’assegnazione da parte dell’allora Governo Conte 2. Si era parlato di un budget annuale di circa 80 milioni di euro e, a regime, di un organico di un migliaio di persone, con Torino hub di riferimento con 600 addetti, in collaborazione con centri di ricerca e università. Tra i settori coinvolti ci saranno manifattura e robotica, IoT, sanità, mobilità, agrifood ed energia, Pubblica amministrazione, cultura e digital humanities, aerospazio. Una bella prospettiva, anche per l’ecosistema dell’impact economy che si sta consolidando sul territorio.

Quali sono le premesse che mettono Torino al centro della questione dell’Intelligenza Artificiale?
Il presupposto, in realtà, sta nel fatto che I3A è un bene per l’Italia. E lo è nel momento in cui lo si realizza in un luogo che ne ha le competenze. L’IA è una tecnologia decisiva per la costruzione del nostro futuro.

Cioè, lei dice, bisogna coordinarsi bene.
Sì. E questo lo impone anche la corresponsabilità civica nel come affrontare la ripresa dopo il Coronavirus. Serve un collettore che con buona strategia faccia dialogare i diversi Paesi e la ricerca universitaria che busseranno all’Italia. Un nodo strategico della rete, anche per evitare che si scatenino inutili interventi finanziari a pioggia, ma ben mirati. Insomma, occorre un centro che coordini lo “scivolo tecnologico” e che dia un orizzonte di sistema ai grandi asset del Paese: dalla Pubblica amministrazione alle forze di polizia, dalla grande industria al mondo dell’innovazione sociale. Tenendo presente anche il terzo pilastro, che è la dimensione culturale.

Ecco, su questo aspetto non scontiamo forse un ritardo consistente?
Da quando Torino ha ottenuto l’assegnazione di I3A, io che non sono nessuno mi sono ritrovato a parlarne ovunque, anche in realtà inattese. E vuol dire che c’è grande desiderio di conoscere e di approfondire…

Che cosa ci giochiamo con l’Intelligenza artificiale?
Un po’ tutto, direi. Pensiamoci: l’IA può essere un potente motore di uguaglianza quanto di disuguaglianza. L’IA governa la realtà in maniera automatica, ma sempre in modo più autonomo, per cui può generare maggiore giustizia o profonda ingiustizia. Insomma, ha un potere di inclusione o di esclusione significativo. Per cui, se si basa sui dati che ha – se sono incompleti – è un guaio.

Questo è evidente: il fattore umano resta decisivo.
Sì, ma è evidente fino a un certo punto. E non a tutti, più che altro. La realtà, sovente, non ha dati disponibili su tutto. Pensiamo ai poveri, sovente non rilevati e dunque invisibili. Chi è ancora analogico, in un contesto del genere – gli anziani o comunque tutti coloro esclusi dal digital divide – è come se non esistesse. E dunque l’ingiustizia si trova dietro l’angolo.

Come si potrebbe lavorare con l’IA per renderla maggiormente tech4welfare?
L’IA ha un potere conoscitivo sulla realtà. Quindi è capace di fornire al decisore delle informazioni. Ma quali? Se la uso per scovare anomalie con intelligenza ha un impatto sociale. Pensiamo al riconoscimento facciale: può essere adoperato per scopi non democratici, certamente. Ma può essere un formidabile strumento per accompagnare la didattica di una persona fragile o affetta da disturbi psichici, per cogliere disagi o progressi. Insomma, è la stessa potenza, ma con ben altro impatto…

Tutto questo ha dei costi enormi.
Dovremmo imparare a usare meglio la parola investimenti, dal momento che sono scelte che ci proiettano in avanti. E proprio la consistenza economica deve fornire la cifra della corresponsabilità in gioco. Più una cultura dell’inclusione viene diffusa, più l’economia, la ricerca e la finanza possono lavorare meglio. Con benefici per tutti, anche nel risparmio della allocazione delle risorse.

Serve maggiore interdisciplinarità? Che può fare Torino Social Impact?
La contaminazione tra i saperi è la strada migliore per crescere nel villaggio globale. Lo vedo quando metto vicini studenti di università diverse, sboccia un confronto assolutamente fecondo. Se Torino Social Impact favorisce questo dialogo è importantissimo. Serve a eliminare le barriere della autoreferenzialità. Cosicché la transizione digitale diventa utile sia per l’industria sia per il terzo settore. In maniera più ampia.

Torino ha le carte in regola per questo percorso?
Sì. Perché ha una contaminazione ottimale sul territorio. Vanta un tessuto accademico adatto non solo per la qualità della ricerca, ma anche per la quantità di laureati in questo settore, diverse centinaia ogni anno. Ha poi una configurazione del sistema produttivo estremamente ampia, dall’agrifood all’aerospazio alla meccatronica. Cioè esiste la capacità di “messa a terra” sostanzialmente su tutto. Ed esiste al contempo una cultura della sperimentazione sociale. Per cui tutto questo può avvenire meglio che altrove, con una scalabilità particolarmente interessante per applicazioni in tutta Italia.

Francesco Antonioli